Parliamo della protezione di chi amiamo e delle sue conseguenze
C’era mio figlio: dovevo soffrire per lui
Un figlio deve amare il padre per il buon esempio che gli porta, il padre per essere un buon padre deve avere queste e quelle caratteristiche – e se qualcosa di questa espressione algebrica non quadra, la si forza con qualche bugia “a fin di bene”, con qualche pennellata di rosa. Cosí fa Helene Alving, la protagonista di “Spettri” di Ibsen che, per allontanare il piccolo Osvald dall’influenza del padre dedito ai vizi, lo manda in collegio in giovane età, rinunciando alla vita con il suo figliolo per salvare le apparenze matrimoniali.
Ogni attimo della mia vita era una lotta disperata perchè questo segreto non fosse divulgato (..) mi toccò lottare con raddoppiata energia perchè nessuno potesse mai indovinare che uomo era il padre di mio figlio
Il nostro Osvald, diventato un pittore della Parigi dell’Ottocento, ritorna dalla madre malato di sifilide, dedito al bere e ai piaceri così come era il padre. Quello a cui chiudi la porta, ritorna con un ariete per sfondarla: questo è uno dei leitmotiv più comuni in Ibsen, e oserei dire nella vita. Mi sono chiesta: la signora Alving ha forse fatto un furto ai danni del figlio? Forse Osvald aveva bisogno di fare esperienza di quel padre. e solo di quello e di nessun altro, per poter evolvere e per non finire nella malattia come lui. Tentando di proteggere e salvare il figliolo, forse la madre ha negato la possibilità di esistere ad un un rapporto che sarebbe potuto essere di crescita, di esempio o di esperienza, ma che senza dubbio avrebbe fatto parte del destino del figlio, di ciò di cui l’anima aveva bisogno per progredire. E’ l’enorme peccato di hybris, di sopravvalutarsi talmente tanto da mettersi al posto di Dio e decidere cosa è bene e cosa è male per qualcun altro – secondo la propria soggettiva e parziale scala di valori, che vale per noi stessi e per nessun altro.
Mi piace pensare che una situazione non sia nè buona nè cattiva, nè giusta nè sbagliata; è neutra, siamo noi per come ci poniamo rispetto ad essa a darle un colore e un carico emozionale, a farne un dramma o una lezione. Soprattutto, la visione del quadro generale da quaggiù non l’abbiamo, e se non l’abbiamo per la nostra vita, figuriamoci per quella degli altri; non confondiamo, come fa Helene Alving, l’amore con il controllo, la hybris con la protezione. Nessun figlio può essere protetto dalla vita. Riformulo: nessuno ha il diritto di proteggere qualcun altro dalla sua – propria – vita. Siamo qui per romperci. Anche il fatto più al limite cela sempre un insegnamento per lo spirito, e se lo si scorge si vince, si vince sempre.
Altrimenti, privati delle ferite che erano il nostro destino, ce ne procuriamo di più profonde, di insopportabilmente non nostre, e finiamo l’ultima scena carponi sul pavimento, regrediti come bambini, in balìa di un’angoscia senza nome.
CONSIGLIO DI LETTURA! “SPETTRI” nell’edizione Henrik Ibsen, Drammi moderni, a cura di Roberto Alonge, Milano, radiciBUR 2009